Siamo morti infarinati
come pagliacci di un circo equestre
in più soltanto un filo di sangue dalla bocca.
Avevamo tutti in mente
un nome amato e invano,
sul momento, qualcosa ce l'ha fatto dimenticare.
Mia figlia stava tessendo pensando al marito in Germania.
Mia nuora stava scrivendo a caratteri grandi
l'amore per mio figlio finito a Digione.
Avevo un nipotino sulle gambe
pieno di riccioli e bizze
una pecora ai piedi e il cane appoggiato sulla sua lana;
mentre io fumavo la pipa
nell'alta sera Irpina.
Sere di storie subite e rimaste impunite.
Sere di venti e tremiti d'animali nei pagliai,
mescolate a magie pagane e cristiane.
Ma tutti avevamo fiducia nella forza dei cieli siderei,
nell'osso che ci ha generati cui stavamo aggrappati
come grappoli d'uva acerba,
tra i sassi che ci riscaldavano insieme ai fagioli e ai ceci,
miti cibi come mangimi.
Poi c'è stato l'evento, nero furore profondo,
tra l'ictus e l'infarto, un dubbio,
come un peso di una bilancia impazzita.
Ho sentito il passo di Pertini
e quello felpato del Papa,
ma né l'uno, né l'altro, umane creature,
avevano unghie per scavarci.
E così siamo morti da emarginati
da antichi clandestini della storia.